Itinerario nella città vaticana, a Roma e nella sua provincia

In barca sul Tevere con Caronte

Le tappe dell’itinerario

Subiaco: l’idea monastica della morte e del giudizio


Risaliamo ora la valle dell’Aniene verso Subiaco. Il monastero si è sviluppato intorno alla grotta (speco) dove San Benedetto, intorno al 500, trascorse i primi anni della sua vita monastica. Oggi vi si arriva comodamente in auto. Ma è più suggestivo partire a piedi dalla villa di Nerone sull’Aniene, lungo la via degli eremi che collega il monastero di Santa Scolastica, il Sacro Speco, l’eremo di San Biagio, l’eremo del Beato Lorenzo fino al rifugio e alla cima del monte Taleo. Sulla parete della scala santa troviamo la scena del trionfo della morte. Uno scheletro coi capelli al vento e le pupille nere cavalca uno splendido cavallo bianco. Il cavallo calpesta alcuni corpi di morti, tra i quali si riconoscono un religioso e un nobile. La morte colpisce con la lunga spada uno spensierato giovane che conversa con un amico. Si tratta di due aristocratici a caccia, come dimostra il falcone sul pugno del giovane. Più indietro invece un gruppo di poveri vecchi e mendicanti chiede invano di morire. Una seconda scena descrive l’antica leggenda dell’incontro tra i vivi e i morti. Secondo la tradizione tre cadaveri revenants di ecclesiastici incontrano tre nobili viventi: un duca, un conte e un principe. I morti parlano ai nobiluomini terrorizzati, esortandoli a pentirsi e a cambiar vita: "Così come io ero ciò che siete, così io sono quello che voi sarete. Il benessere, l'onore, e la potenza non sono valori, nell'ora della vostra morte". Nell’affresco di Subiaco vediamo invece tre cadaveri che giacciono nelle bare aperte: il primo ha il corpo pressoché integro; il secondo è già decomposto e pieno di vermi; il terzo è ormai mummificato e scheletrico.  La funzione didattica di trasmettere la morale monastica del disprezzo del mondo e della scelta della vita penitente viene assunta da un saggio eremita, il monaco Macario, che illustra ai giovani il senso della scena. L’immagine ha la funzione di ricordare l'esito orribile dell'esistenza umana e la caducità della giovinezza e delle gioie terrene.

La terza scena è quella del giudizio universale. L’affresco, che risale al 1468, è francamente bruttino ma resta istruttivo. E se l’iconografia non bastasse da sola a spiegare il senso dell’avvenimento, un ricco corredo di scritte integra il deficit di didattica visiva. Cristo è seduto sull’arcobaleno della nuova alleanza, con le piaghe bene in evidenza, il corpo martoriato dai flagelli e la tunica spruzzata di sangue. Originale è la scelta di rappresentare la sentenza di premio e di castigo che egli pronuncia attraverso una spada e un giglio che spuntano dalla sua bocca in direzioni contrapposte. Tuttavia, nel timore che il simbolo risultasse troppo ermetico, il pittore ha collegato con un filo in grande evidenza le piaghe delle mani di Gesù ai cartigli con la sentenza scritta: Venite, benedicti e Ite, maledicti. Ai lati del Cristo sono raffigurati quattro angeli alati con gli strumenti della passione (la colonna, la lancia e la canna, la scala, la croce con la corona di spine). Dietro di loro compaiono la Madonna e il Battista. Ai piedi del Cristo, in ginocchio, sono le monache benedettine in preghiera. Il secondo riquadro racconta la resurrezione dei morti e l’inferno. Il senso della scena è introdotto da un cartello scritto che riporta il testo del “Dies irae” di Tommaso da Celano. Un angelo suona la tromba che risveglia i morti (“surgite mortui, venite ad iudicium”). I corpi escono dalla terra o dai sepolcri. Son tutti nudi, salvo i monaci e le suore che indossano l’abito benedettino. Un risorgente estrae dalla tomba un morto ancora avvolto nel sudario. Altri risorti, avendo appreso il loro destino di condanna, si buttano a terra disperati e si coprono gli occhi con le mani per non vedere l’orrore dell’inferno. L’ultima parte dell’affresco, dedicato ai castighi infernali è illeggibile.

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