Itinerario in Basilicata

Pietrapertosa. Il giudizio di Dio tra le Dolomiti lucane

Le tappe dell’itinerario

Piccola capitale del parco naturale regionale Gallipoli Cognato, dall’alto dei suoi 1088 metri, Pietrapertosa è il comune più elevato della Basilicata e uno dei “borghi più belli d’Italia”. Insieme a Castelmezzano è la protagonista di un interessante tentativo di valorizzazione turistica del suo curioso paesaggio rupestre (le Dolomiti lucane) grazie all’attrazione del “volo dell’angelo”, al “percorso delle sette pietre” e ai ricordi medievali del castello e del quartiere arabo.

La chiesa madre dedicata a San Giacomo Maggiore, risalente al Quattrocento e ristrutturata nel secolo successivo, custodisce alcune testimonianze dell’arte lucana. Tra queste è il Giudizio universale che Giovanni Luce da Eboli (Joannis Luce de Ebulo) affrescò su una parete del presbiterio. Dipinti dello stesso autore, tutti risalenti ai primi decenni del Cinquecento, sono nella vicina chiesa del Convento di San Francesco. Così che i temi della tradizione francescana e in modo particolare quelli declinati dalla famiglia francescana dei Frati Minori Osservanti sono ricorrenti nell’iconografia dell’artista.

Il Giudizio universale – o almeno quel che ne rimane – presenta alcune notevoli originalità. La prima di queste è il paesaggio naturale nel quale si muovono i risorti. È un paesaggio ampio, profondo, che il pittore inquadra in “campo lungo”. Verdi colline fanno da base a ruvide rupi scoscese e si alternano ad aride conche e a depressioni vallive. È una campagna ondulata dalla quale spuntano i tipici calanchi argillosi o le guglie di arenaria delle locali Dolomiti lucane, sullo sfondo del Raparo e delle tondeggianti cime dell’Appennino. Vi è naturalmente una citazione scritturistica. Il pittore traspone in terra lucana la biblica valle di Giosafat, la valle del torrente Cedron di Gerusalemme. In questa valle Dio pronuncerà il giudizio universale, come attestato dal profeta Gioele (3,2): «io adunerò tutte le nazioni
e le farò scendere nella valle di Giosafat: là le chiamerò in giudizio».

La seconda originalità paesaggistica è costituita dal braccio di mare che avvolge la terraferma e che si arena sulla spiaggia della caletta a sinistra. Il mare mostra nelle sue profondità un serpente e un mostro marino ed è solcato dalla barca di Caronte. Anche in questo caso l’immagine è una citazione, tratta non dalle sacre scritture ma della tradizione classica greca e romana: lo specchio d’acqua raffigura infatti l’Acheronte, il mitico fiume che conduce all’oltretomba.

In questo grandioso paesaggio è descritta minuziosamente la risurrezione dei morti. La sveglia universale è affidata alle trombe del giudizio suonate dagli angeli. Una di queste trombe squillanti è ancora visibile in alto, al centro dell’affresco. I morti risorgono dalle loro tombe e dalle fosse nelle quali erano stati inumati. Ma la risurrezione riguarda anche i cadaveri che erano stati divorati dalle bestie feroci, come nel caso del lupo, a destra nel dipinto, che rigurgita i poveri resti di una persona sbranata. E a rivivere miracolosamente sono anche gli annegati in mare, che vengono vomitati dai mostri nelle profondità marine. Si tratta di un particolare caro all’iconografia bizantina del Giudizio, preso di peso dal libro dell’Apocalisse (20,13): «e il mare restituì i morti che erano in esso». Tra i risorti, sull’alto di una rupe, sono anche due frati francescani vestiti del tradizionale abito grigio cinerino che in ginocchio rendono lode al Giudice.

Dopo la risurrezione dei corpi va in scena la separazione degli eletti dai dannati. Essa è intanto simbolizzata dal teatrale contrasto tra l’angelo e il diavolo che si svolge in primo piano. L’angelo con la spada sguainata difende i salvati dalle rapaci brame di un diavolo nero che vuole impadronirsene. Si noti che l’angelo afferra addirittura il polso di un frate francescano tonsurato per strapparlo al demonio. Dietro i duellanti c’è la scena tradizionale del corteo degli eletti. A destra si vede invece il gran lavoro dei diavoli per imbarcare i dannati. La barca di Caronte è in realtà quasi un guscio di noce, stracarico di creature disperate, pericolosamente beccheggiante sulle onde, guidato da un nocchiero irato che brandisce il remo come un’arma e arpionato da diavoli camalli sulla riva opposta. Al di qua del mare acherontico il pittore colloca l’Inferno. La Città di Dite si allunga alla base dell’affresco, separata dalla terraferma dalla difesa naturale delle acque e là dove il mare lascia spazio alla spiaggia, difesa da alte mura alzate in pietra a secco. La pena è unica, replicata tante volte. I peccatori sono buttati nei pentoloni, mentre i diavoli accumulano legna e attizzano il fuoco con robusti mantici. Nelle caldaie arroventate i dannati, puniti per i loro vizi, sono scottati, ustionati, bolliti e scontano la loro pena in modo egualitario senza distinzione di genere e di gravità dei peccati commessi.

Sul fronte opposto i beati ascendono la montagna del Paradiso. I risorti sono tutti nudi. Non indossano la “veste candida”. Seguono le indicazioni di San Francesco o di un angelo che li indirizza verso la cima del monte dove una torre prelude alla Città Santa, la Gerusalemme Celeste, il Paradiso. Il corteo dei beati è caratterizzato da un particolare originalissimo, probabilmente unico nell’iconografia. Ciascun risorto porta con sé una croce. L’ascesa al Paradiso assume la forma di un’ascesi, di un lungo pellegrinaggio penitenziale, intorno al simbolo dell’Osservanza. È la trascrizione in immagini del capitolo 16 di Matteo, dove Gesù dice ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà». E subito dopo annuncia il giudizio finale: «il Figlio dell'uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

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