Itinerario in Basilicata

Matera. Il Giudizio finale della Cattedrale

Le tappe dell’itinerario

La  Cattedrale di Matera è stata costruita nel 1270 sulla Civita, il punto più alto della città dei Sassi. Lo stile architettonico è il romanico delle grandi cattedrali di Puglia. Non bisogna infatti dimenticare che Matera, prima di entrare in Basilicata, è stata città pugliese fino alla seconda metà del Seicento. La dedicazione è alla Madonna della Bruna, protettrice della città e protagonista di una tumultuosa processione che si svolge ogni anno il 2 luglio. La sua posizione di grande visibilità la caratterizza come uno dei grandi attrattori di Matera. L’interno ha subito nei secoli alcune trasformazioni che lo rendono meno piacevole del suo esterno. Della decorazione pittorica originaria si è salvato soltanto un brano del Giudizio finale che Rinaldo da Taranto vi affrescò alla fine del Duecento. Rinaldo e il fratello Giovanni erano nati a Taranto e vi erano cresciuti imparando il mestiere di pittori prima di iniziare un percorso artistico che li avrebbe visti dipingere in buona parte del Meridione. Il Giudizio di Matera – o almeno quel che ne resta - ha una stretta affinità con il grande Giudizio che Rinaldo ha dipinto nella Chiesa della Madonna del Casale a Brindisi. Qui a Matera restano ancora visibili una scena della risurrezione dei morti, il purgatorio e il corteo dei dannati condotto all’inferno. L’angelo tubicino sveglia i morti con il suono della tromba: «et dedit mare mortuos qui in eo erant». Seguendo le indicazioni del libro dell’Apocalisse (20,13), il pittore ha rappresentato la scena del mare che restituisce i suoi morti. Il mare è personificato da una regina fasciata da un lungo abito di porpora e con lo scettro in mano, che cavalca il dorso di un grande pesce. E le creature del mare, i mostri marini, le balene e gli squali (che per la verità somigliano più a delle pacifiche orate), restituiscono - vomitandoli - i corpi e le membra degli annegati in mare che hanno divorato.

Sotto il fondo del mare ma sul margine superiore dell’inferno l’artista colloca il purgatorio e per maggior chiarezza lo identifica con la scritta «hoc est purgatorium». Nella tradizionale geografia dell’aldilà il purgatorio è un luogo infero, sotterraneo, punitorio; e per queste ragioni viene associato all’inferno; trattandosi però anche di un luogo transitorio, di purificazione, che prevede la successiva liberazione delle anime, esso è collocato sopra l’inferno in modo da mantenere una linea di comunicazione aperta con il cielo. A Matera il Purgatorio è immaginato come un condominio di cubicula, o forse, se si guarda alla prospettiva suggerita dall’artista, a una successione di vasche. Nei diversi ambienti la pena resta sempre la stessa, quella del fuoco ardente che purifica e tempra i peccatori. Variano invece la postura e l’atteggiamento dei purganti: mentre alcuni sono rassegnati, guardano in basso e mostrano in viso la sofferenza e la depressione della pena, altri sembrano più aperti alla speranza di una prossima liberazione, guardano il Giudice nell’alto dei cieli e allargano le braccia nel gesto della preghiera.

L’inferno è immaginato come un fiume fiammeggiante che scende dai piedi del giudice e precipita nell’abisso a formare un lago che diventa il trono di Satana. Lucifero è immaginato come uno scimmione dagli occhi spiritati che stritola con i denti i corpi dei dannati più infami; gli fa compagnia lateralmente  la testa di un lupo che apre la sua bocca famelica per azzannare i peccatori accompagnati al supplizio da servizievoli diavoli neri. I dannati hanno diversa statura. Alcuni sono raffigurati come semplici testine tonde, quasi delle bocce, provenienti dalla pesatura dell’arcangelo Michele: un diavolo backpacker le ha accatastate tutte nel suo zaino e se le carica sulle spalle per scaricarle nell’abisso. Il corteo dei dannati comprende poi tre coppie, formate da un religioso e da una donna; i religiosi vestono l’abito dei francescani o quello dei domenicani; sono così condannati il concubinato dei preti e i cattivi costumi dei conventi. Un avaro – stigmatizzato dalla scritta falsa mesura - porta appeso al collo il suo banco di cambiavaluta e viene trascinato all’inferno a scontare il peccato di usura e falsificazione. Alle sue spalle ben due diavoli si occupano di una donna malalingua: il primo se la carica sulle spalle, mentre il secondo le arpiona la lingua con un uncino. L’ultima scena visibile è quella dell’angelo vendicatore, in total red, che spintona con un forcone un gruppo di dannati verso Lucifero. La maggiore statura dei personaggi ne segnala la particolare peccaminosità. Accanto a una figura nuda si riconoscono un re con mantello e corona, un religioso che spernacchia il Padreterno, un vescovo con la mitria, altri religiosi e un soldato armato con la cotta di ferro. I serpenti che fuoriescono dalle bocche simboleggiano il vizio dell’orgoglio e della superbia, il peccato d’invidia diffuso nelle corti e nelle curie, l’eresia che stravolge e irride le verità della fede.

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