A piedi sul colle della “città aperta”

Trekking urbano a Chieti

Il trekking urbano è una bella scarpinata su e giù per le strade di una città, alla scoperta dei suoi monumenti più noti e dei suoi tesori più nascosti. Chieti, storica città dell’Abruzzo, posta sulla cresta ondulata di un colle, è un’ottima proposta per il camminatore urbano. Con un impegno fisico alla portata di tutti e un pizzico di curiosità, l’escursionista soddisfa il suo desiderio di ammirare tesori del patrimonio archeologico e artistico, scoprire l’intreccio tra natura e storia, contemplare panorami mozzafiato sulle grandi montagne, i colli e il mare d’Abruzzo. Questo trekking urbano ha un motivo d’interesse in più: ricordare le vicende di una città nella tragedia della guerra e l’impegno di un Vescovo che riuscì a farla dichiarare “città aperta”, evitando la dispersione dei suoi abitanti e salvandola dalla distruzione. È infine un “itinerario d’autore”, poiché cammineremo in compagnia di scrittori e intellettuali come Corrado Alvaro, Eugenio Corti ed Ettore Paratore. Per ragioni diverse essi si incrociarono a Chieti nel periodo della guerra e di quei giorni hanno lasciato testimonianza nelle loro opere.

Il quadro ambientale


Il colle di Chieti si staglia a 330 metri, tra le valli del Pescara e dell’Alento, a 15 km dal mare Adriatico. La città è ben visibile sia a chi percorra la ferrovia o l’autostrada per Roma, sia a chi si affacci dalle cime della Maiella sullo sterminato tappeto ondulato di colli in direzione della striscia del mare, sia a chi si diriga verso l’interno provenendo dalle città della costa. Città universitaria, capoluogo di provincia, è dotata di resti romani, monumenti medievali e musei archeologici di particolare valore. La parte bassa della città, nella vallata del Pescara, ospita significativi insediamenti industriali, l’aeroporto e una nuova grande area commerciale.


Le vicende belliche


Nel 1943-44, quando il fronte di guerra si ferma per sei mesi sul fiume Sangro e sul Moro, Chieti diventa il centro più importante dell’immediato retroterra della linea Gustav e offre così rifugio a decine di migliaia di persone sfollate dai paesi devastati dalle mine tedesche o bombardati dagli aerei alleati. Di fronte alla decisione dei tedeschi di evacuare la città, l’arcivescovo mons. Giuseppe Venturi si appella con grande coraggio e insistenza al Papa, al generale Kesselring e al comando inglese, riuscendo a far dichiarare Chieti “città aperta”, interdicendola alla presenza delle truppe armate e salvandola dalla distruzione, ma soprattutto garantendo salvezza e assistenza ai suoi abitanti. Nel giugno del 1944, dopo la rottura della linea Gustav, la ritirata dei tedeschi apre la strada all’arrivo delle truppe italiane e alla liberazione della città.


L’itinerario


Il percorso urbano di Chieti, alla ricerca delle sue memorie di guerra, può cominciare da Largo Valignani. La piazza, alla confluenza di sei strade, è il punto di svolta del passeggio cittadino ed è nota popolarmente come “il pozzo” perché costruita su un’antica cisterna romana. Vi si affaccia il neoclassico teatro Marrucino con il suo bell’interno a bomboniera. Nel 1904 vi fu rappresentata la “prima” della “Figlia di Jorio” di Gabriele D’Annunzio e nell’occasione il poeta abruzzese fu insignito della cittadinanza onoraria teatina.

Spicca sulla piazza la bianca facciata del Palazzo arcivescovile, che conserva delle sue origini quattrocentesche una torre in laterizio coronata da merli su archetti pensili impreziositi da coppelle di maiolica policroma. Dall’Arcivescovado s’irraggia l’azione di Mons. Giuseppe Venturi per la tutela della città e dei suoi abitanti. Qui il 25 marzo del 1944 viene dato l’annuncio della dichiarazione della “città aperta” e ancora qui, nei giorni della liberazione, il Vescovo e il generale comandante della “Nembo”, ricevono l’applauso della folla.

Dalla piazza Valignani, seguendo la Via Pollione, si raggiunge piazza Vittorio Emanuele II che tutti a Chieti chiamano “piazza San Giustino”. Quattro edifici attirano la nostra attenzione: la Cattedrale, il Palazzo di Giustizia, il Palazzo Mezzanotte e il Municipio. La cattedrale dedicata a San Giustino è il cuore della vita religiosa della città. Se ne ammira l’elegante campanile a quattro piani sormontato dalla cella campanaria di forma ottagonale e la loggetta che corona la facciata laterale. Salendo l’alta scalinata si entra  nell’armonioso interno a tre navate con il transetto sopraelevato. Dalle rampe di scale alla base del presbiterio si scende a visitare l’interessante cripta in essenziale stile medievale e la cappella del Sacro Monte dei Morti, l’arciconfraternita che organizza la suggestiva processione del venerdì santo. Una cappella accoglie la tomba di Mons. Venturi.

Il Palazzo di Giustizia chiude la piazza verso la Val Pescara. Qui si svolse nel 1926 il processo Matteotti. Giacomo Matteotti era deputato socialista e segretario del Partito socialista unificato: avverso alla politica di compromessi, fu tra gli oppositori più efficaci e decisi del governo Mussolini che attaccò più volte alla Camera. Il 10 giugno del 1924 fu rapito sul lungotevere e ucciso da una banda di sicari fascisti. Il processo a carico degli assassini si tenne appunto presso la Corte d’Assise di Chieti, definita "città camomilla” dal giornalista Perbellini del quotidiano "Il Resto del Carlino", inviato a Chieti per il processo. Il tribunale, addomesticato dal regime fascista, condannò gli imputati a pene lievi, per il reato di omicidio preterintenzionale. Un provvido decreto di amnistia e indulto, preventivamente emanato, cancellò poi del tutto le pene.

Proseguendo il giro della piazza, ammiriamo ora il signorile Palazzo Mezzanotte. Dal mese di settembre del 1943 e fino al giugno dell’anno successivo esso fu del comando tedesco di Chieti.

L’edificio del Municipio, costruito nel Cinquecento dalla famiglia Valignani, ha subito profonde ristrutturazioni che lo hanno portato in epoca borbonica a ospitare la gendarmeria reale. Qui, in una stanza all’ultimo piano del palazzo comunale, venivano raccolti gli uomini rastrellati e destinati al lavoro forzato per la costruzione di fortificazioni sul fronte del Sangro. Un rastrellamento fu condotto perfino il giorno di Natale del 1943. I tedeschi si appostarono all’ingresso della Cattedrale per fermare gli uomini che uscivano dalla Messa natalizia, anticipata al pomeriggio a causa del coprifuoco. Il  parroco, Mons. Eugenio Muffo, intervenne prontamente e nascose gli uomini dietro gli altari, nella cripta, nelle cappelle e negli angoli più remoti del Duomo, provvedendo poi a farli fuggire da un’uscita secondaria e nascosta. La facciata reca una lapide dedicata alla Brigata Maiella, “che in Abruzzo e oltre i suoi monti innalzò il vessillo della libertà, incalzando senza tregua il feroce invasore”.

Sulla prima rampa dello scalone d’onore del municipio una maiolica dipinta nel 1960 da Tommaso Cascella descrive le vicende della “città aperta”: l’afflusso dei profughi, il passaggio del fronte, le fucilazioni, gli incontri di Mons. Venturi con il Papa e con i comandi tedeschi e il Te Deum finale di ringraziamento.


La proclamazione di Chieti “città aperta”

Che ci fosse qualcosa in vista, lo si capiva dall’affollamento veramente eccezionale al centro. Verso il Pozzo, all’altezza dei portici e del Caffé Vittoria, bisognava fare a gomitate per passare. E, quel ch’è più, all’angolo dell’Arcivescovado, la folla aveva lasciato un bello spazio vuoto e formava una specie di cordone per evitare che ci si cacciassero dentro passanti isolati, e quasi per fare ala al «venerato presule», in cui erano riposte tutte le speranze. (…)

Le facce, di solito aggrondate, dei passanti, erano atteggiate al sorriso. Nei gruppetti si conversava allegramente, ci si scambiava saluti da un crocchio all’altro, come se si fosse alla passeggiata domenicale, allo struscio per il Corso.

«Don Enrì, ci siamo. S. Giustino l’ha fatta la grazia. Quel sant’uomo di mons. Venturi l’ha spuntata. Sta per uscire dall’Arcivescovado per andare al comando tedesco a concordare la dichiarazione solenne. Anche loro, via, sono meno fetenti del solito. Non hanno fatto difficoltà, ce l’hanno avuta compassione di tanti poveretti.» (…)

Un grido, un rimbombo, un frastuono di gioia esplose e si propagò all’improvviso dalla vicina piazza S.Giustino. Voltandosi al rumore Enrico scorse uno schizzo di gente, specialmente giovani, che veniva giù correndo e gesticolando a bocca spiegata, con urla che fendevano l’aria come frecce, agitando le braccia a mulinello, facendo capriole, percorrendo su e giù metri di strada in un carosello ininterrotto, come cani in fregola. «È fatte, è fatte! L’ha fatte lu miracule! Pozz’esse benedette! Scine, scine! Siamo aperti! Nun ce ponne bumbardà! Ci potemo stà sicuri ccà dentre. Viva, viva lu vescuve!»

(Ettore Paratore, Era un’allegra brigata)


Dalla piazza della cattedrale ci spostiamo su largo Cavallerizza, stazione di partenza e di sosta dei bus urbani. Un’aiuola spartitraffico ospita il monumento dedicato alla Resistenza: un simbolico stormo di colombe si alza in volo, spezzando le catene dell’oppressione.

Ci attira la balconata che si affaccia sulla Val Pescara. La valle è visibile nella sua interezza, incorniciata da un profilo che comprende il Morrone, le gole di Popoli, il Sirente, Forca Penne, la catena del Gran Sasso, i monti della Laga, i Sibillini, la Montagna dei Fiori, il monte dell’Ascensione, i colli aprutini e il mare Adriatico. Proseguendo lungo Via Asinio Herio, all’altezza del Grande Albergo Abruzzo, il panorama sulla valle si arricchisce di particolari.

Ci dirigiamo ora verso la Via Generale Pianell. Sulla sinistra, incastrato tra le case del quartiere della Civitella, si riconoscono i resti del Teatro romano, aperto un tempo sullo sfondo panoramico della valle del Pescara. La Via Pianell, dopo una curva, diventa un nuovo eccezionale balcone sui paesi e sul massiccio della Majella, sulla Casauria e la valle del Pescara e sulla vasta zona urbanizzata dello Scalo. Durante la guerra le principali infrastrutture della valle furono ripetutamente bombardate dagli alleati. La stazione ferroviaria fu distrutta; furono colpiti i ponti sul fiume Pescara e gravemente danneggiati gli impianti industriali.

Siamo ora sull’acropoli dell’antica città romana di Teate. Entriamo nel Parco archeologico della Civitella. Si possono visitare il museo multimediale e il grande Anfiteatro romano. L’originale integrazione dei resti archeologici con gli edifici moderni ha restituito all’acropoli la sua antica funzione di aggregazione urbana, di intrattenimento e cultura: gli spazi disponibili consentono di ospitare convegni, rappresentare opere del teatro classico, sedere in un raffinato locale e animare un’affollata discoteca estiva. La Via Pianell scende, lascia a sinistra Via Vernia e Via Paolucci, sfocia nella Via Ricci continuando ad aprire finestre panoramiche sulla Majella. Costeggiato l’istituto scolastico intitolato all’Abate Ferdinando Galiani, si prosegue sulla via panoramica fino a raggiungere un incrocio. Sulla destra scende il Viale Europa. Si prende a sinistra il bel viale alberato IV Novembre che introduce alla Villa Comunale, il parco verde di Chieti. Dopo il laghetto e il monumento ai caduti, si apre l’ampio Piazzale Mazzini con una fontana settecentesca al centro. I tigli del parco offrono il fresco mentre le panchine consentono di osservare l’affollato passeggio o di isolarsi in angoli più intimi e romantici. Un’aiuola ospita il monumento che i chietini hanno eretto a Monsignor Venturi, con una dedica esplicita: “la città al suo salvatore”.

Una scalinata sale alla Villa Frigerj, sede del Museo archeologico nazionale, che ospita il celebre e fotografatissimo Guerriero di Capestrano. Ripreso il viale alberato, si costeggia a sinistra il muraglione che sostiene il Seminario regionale, segnalato da una grande croce, e si raggiunge la Piazza Trento e Trieste, all’incrocio di sei strade. Domina la piazza la Chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini con il suo campanile dalla caratteristica cuspide a bulbo. Di fronte, l’edificio costruito in schietto stile littorio, con i grandi fasci avvolti dalle scalinate, ospita oggi un Museo scientifico dell’Università “D’Annunzio”. Proprio all’angolo del palazzo è la lapide che ricorda la liberazione di Chieti a opera dei paracadutisti della “Nembo”.


La liberazione di Chieti

L’11 giugno il battaglione entrò in Chieti. Era domenica, giorno del Signore, e l’apparizione della città in vetta al suo colle, mi colse mentre pregavo camminando, simile a una risposta sorridente di Dio. D’un tratto prese a cadere un’acquerugiola gradevole e luminosa, che ci fece lieti. Superammo, lungo la strada asfaltata in salita, dei pacchi devastati di tritolo, accanto a buche in cui avrebbero dovuto essere deposti. La loro polvere gialla striava pigramente i rigagnoli della pioggia all’intorno. Evidentemente qui l’avanguardia paracadutista aveva sorpreso dei minatori tedeschi. Incrociammo diversi branchi di civili che scendevano verso la campagna, molti carichi di robe le spalle o il capo; ci salutavano appena, ansioso ciascuno d’arrivare a vedere cosa gli fosse rimasto.

Prima d’entrare tra le case il Decimosesto battaglione fece alt e sommariamente s’inquadrò; dietro di noi s’inquadrò il Decimoquinto. Dopo di che avanzammo a passo cadenzato, fendendo a fatica la folla che si andava facendo via via sempre più fitta, acclamava, gridava, usciva in improvvisi scroscianti battimani. Il nostro passo echeggiava marziale sull’asfalto. «Italiani! Tutti italiani! Sono i nostri soldati, e arrivano primi!...» La gente gridava in preda all’entusiasmo, ci buttava qualche fiore, cercava di toccare le nostre divise con le mani tese. “Ecco” mi dicevo, “abbiamo fatto bene a rimettere in piedi questo moncone d’esercito!” Mentre emozionato marciavo, s’affollavano nella mia mente le lunghe giornate di viaggio tra le montagne: la sferza del sole, quella di Dio, tutte le dure vicende dal giorno in cui, con l’armistizio, l’Italia era caduta in ginocchio.

(Eugenio Corti, Gli ultimi soldati del re)


Dalla piazza si scende lungo la Via Principessa di Piemonte a raggiungere l’Asilo infantile, terzo edificio sulla destra. Per un breve periodo, nel 1940, l’Asilo fu trasformato in campo d’internamento per prigionieri di guerra. I circa duecento bimbi che lo affollavano furono spostati nell’Istituto Santa Maddalena e per alcuni mesi furono sostituiti da poche decine di prigionieri di nazionalità inglese e francese, sorvegliati dai Carabinieri. Ma già nel mese di ottobre 1940, sotto la pressione delle famiglie e delle autorità cittadine, l’Asilo tornò alla sua funzione tradizionale.

Si risale brevemente verso la piazza e, senza raggiungerla, si scende ripidamente a sinistra lungo la Via Nicolini. Sempre in discesa, si traversa la Via Amendola e si raggiunge la piazzetta della Chiesa di San Francesco di Paola. L’edificio a fianco della chiesa, che fu convento e poi carcere e che ora ospita il Polo tecnico della Provincia di Chieti, reca una lapide a ricordo di un gruppo di dieci giovani partigiani chietini, qui imprigionati e poi fucilati dai tedeschi nella pineta di Pescara l’11 febbraio 1944.

Si risale un po’ faticosamente alla Piazza Trento e Trieste e s’imbocca sulla destra il Corso Marrucino, asse centrale della città. Il passeggio dei chietini fluisce continuo e invade gli ampi portici che ospitano le istituzioni, le banche, i negozi e i caffè. La Chiesa di San Domenico si salda all’edificio del Convitto nazionale e del Liceo Classico. Dal Largo Giovan Battista Vico, una breve deviazione per via San Paolo consente di fare il giro dei Tempietti Romani, complesso archeologico dalla lunga storia. Tornati sul corso, si raggiune in pochi passi la piazzetta dedicata ai “Martiri della libertà 1943-44”. Una lapide sulla facciata della Cassa di Risparmio riporta 38 nomi di giovani partigiani “immolatisi per un supremo ideale di patria e di libertà”.

Dal Largo Martiri della Libertà il Vico dei Veneziani scende al Larghetto Teatro vecchio e al bel palazzotto in stile veneziano, oggi sede dell’Associazione degli Industriali.

Tornati sul Corso, si percorrono ora i portici sulla destra che danno accesso agli uffici dell’Amministrazione provinciale e alla Banca d’Italia. Al centro è lo storico “Gran Caffè Vittoria”, reso famoso dal film “Sciopén” del regista teatino Luciano Odorisio.

L’arrivo a Largo Valignani chiude il primo anello del trekking urbano. Il percorso richiede circa due ore, visite ai musei escluse.


Il secondo anello del trekking urbano, che percorre i quartieri orientali della città, ha inizio sempre dalla Piazza Valignani. Il breve tratto di Via dei Gesuiti costeggia il fianco destro del teatro Marrucino e sbocca sulla Piazza Umberto, dove si affaccia il Palazzo del Governo. Dal balcone della Prefettura, il 10 febbraio 1944, il comandante tedesco Maggiore Fuchs, circondato dalle autorità cittadine, comunicò alla folla plaudente la notizia della revoca dell’ordine di sfollamento della città.

Il palazzo Massangioli, di fronte, ricorda con una lapide l’ospitalità data a Mafalda di Savoia, “ultima stazione di pace nel suo calvario ch’ebbe termine tragicamente nel campo di Buchenwald, vittima della ferocia hitleriana”.

Un breve tratto di strada conduce alla piazza Nicola De Laurentiis e all’edificio delle Scuole Nolli. La scuola ospitò il primo gruppo di sfollati che nel 1943 arrivò a Chieti: un gruppo di abitanti di Fara San Martino. Questi furono l’avanguardia di quasi centomila persone in fuga dai paesi evacuati dai tedeschi che arrivarono a piedi, in condizioni igieniche pessime, e nello stato d’animo di aver perduto la casa e tutti i propri beni. Furono attrezzati a ricovero e a mensa tutti gli edifici scolastici e altri edifici pubblici. Ma la grande maggioranza dei profughi fu ospitata dagli abitanti di Chieti che aprirono le loro case. Fu un’esperienza corale di solidarietà che dovette però intrecciarsi a egoismi, disagi, penuria di rifornimenti ed epidemie.


Vita da sfollati a Chieti

Le angherie che fanno al piano di sotto, in casa della signora *, allo sfollato contadino Michele. Sul principio lo avevano accolto per profittare della farina e dei legumi che egli aveva portato per campare in città. Ora lo maltrattano, ora che egli non può dare più nulla. Tutta la borghesia locale, in genere, ha trattato i cafoni alla stessa maniera. I piccoli professionisti, in mezzo alla polizia, agli ospedali, ai tribunali, sono i nuovi feudatari di questa povera gente. Per tutto questo inverno si adoperarono perché i poveri contadini qui rifugiati sfollassero, nella neve, temendo di essere costretti a sfollare loro. E quelli sfollarono, con le robe in testa, i bimbi in braccio, i loro morti seppelliti in fretta. I tedeschi stessi sono stupiti di una tale mancanza di solidarietà. Ora i borghesi tremano di dovere sfollare anche loro, e non si sono accorti che i primi scacciati serviranno ad alleggerire il compito di scacciare tutti.

(…)

I borghesi hanno fatto una grande processione per ringraziamento e propiziazione contro lo sfollamento. C’era tutto il clero della provincia e il meglio della città.

I poveri sono sulle vie dell’Italia centrale, a portare la vera croce.

(…)

Non si finisce mai di capire. Nella casa di fronte dove mi hanno più volte chiamato per invitarmi ad andarmene, unirmi agli sfollati raminghi, fare quello che voglio purché me ne vada, m’hanno invitato a pranzo a Pasqua. Una tregua. Ma insomma, questa è un’ultima traccia di ospitalità, l’ospitalità festiva, così viva nel popolo e stranamente sopravvissuta anche fra i più avviliti e paurosi. Ad Ari, questa estate, nei poveri paesi dei contadini, non vi fu una sola casa dove, alle centinaia di soldati che tornavano in giù, a piedi, dai fronti sgretolati di Francia e di Jugoslavia, per due o tre mesi di cammino, non vi fu una casa benché povera dove rifiutassero una minestra e un pane.

(…)

Non si potrebbe essere più semplici e buoni di così. Avevo preparato il mio fagotto per sfollare. Camillo era sul letto. Una delle sue sorelle mi aveva fatto intendere che me ne dovevo andare. C. chiede: «Dove andate, professore?» Dico: «Vado via». Risponde: «Fa ancora freddo, le strade sono brutte. Dove andate! Restate; Dio provvede». Sono rimasto.

(Corrado Alvaro, Quasi una vita)


Tornati sulla Piazza Valignani, s’imbocca la Via Cesare De Lollis. Un grande portone sulla destra permette di affacciarsi sul cortile di Palazzo Martinetti e di salire a visitare il Museo d’arte e le opere di Francesco Paolo Michetti, Filippo Palizzi e Costantino Barbella. Dopo le vetrine della storica libreria De Luca, la Via De Lollis procede tortuosa in leggera discesa, sfiora la Piazza Malta, sede del mercato cittadino e raggiunge la Piazza Matteotti. Un breve tratto della stretta Via Arniense conduce alla spaziosa Piazza Garibaldi, dominata dalla merlata Caserma “Francesco Spinucci”. Tra l’edificio del vecchio Ospedale Civile e il deposito della linea filoviaria urbana, si prende a destra la Via Emanuele Gaetani D’Aragona e la si segue costeggiando gli edifici dell’Istituto statale d’arte e dell’Istituto tecnico industriale Luigi di Savoia.

Un balcone panoramico s’affaccia sull’arco urbano della città, sul massiccio della Maiella e sui colli a sud di Chieti.

Si costeggia ora un’ampia area militare con la Caserma del 123° Reggimento “Chieti”. Quest’area risultò particolarmente colpita dai cannoni inglesi nelle notti tra il 7 e il 26 febbraio del ’44. Il bombardamento cessò quando si riuscì a comunicare al comando inglese che in città non vi erano truppe tedesche accasermate.

Un nuovo balcone panoramico fa ammirare la verde valle dell’Alento: sullo sfondo del mare i paesi di Ripa Teatina, Villamagna e Bucchianico occhieggiano sulla linea dei colli.

Intitolata ora a Fernando Ferri, la via sbuca sul piazzale Sant’Anna, dominato dall’omonima chiesa. Per la Via Fieramosca, sullo sfondo del mare e di una bella torre merlata tra gli ulivi, si scende all’accesso laterale del Cimitero. Superate le palazzine degli uffici amministrativi si accede all’area cimiteriale: si raggiunge in piano il vialetto centrale e, saliti alcuni gradini sulla sinistra, si è al Sacrario Militare. Ai lati dell’ingresso sono due grandi statue bronzee che raffigurano il giovane in armi e l’anziana madre che attende il figlio in guerra. L’altare reca bassorilievi con scene belliche legate alla storia dell’Abruzzo e a Chieti in guerra: il Vescovo Venturi accoglie gli sfollati e impetra per i condannati alla fucilazione. Il Sacrario raccoglie le tombe dei soldati caduti nelle diverse guerre, dei partigiani fucilati, dei morti nei campi di sterminio, dei caduti in Russia e dei decorati al valor militare.

Si risale il cimitero lungo il vialetto centrale fino all’ingresso principale e al piazzale Sant’Anna. Si segue la Via Padre Alessandro Valignani, costeggiando il muro esterno della caserma e la chiesa del Sacro Cuore fino a raggiungere la Piazza Garibaldi. Traversata la piazza, si va a prendere la via esterna, intitolata a Federico Salomone, e la si segue fino a Porta Pescara.

In questo tratto diverse finestre panoramiche consentono di affacciarsi sui colli teatini, sull’ultimo tratto della Valle dell’Alento e sul mare di Francavilla.

La Porta Pescara immette nel quartiere di Santa Maria.  Passati sotto l’arco ogivale della porta duecentesca, per una caratteristica stradina a scalette (si noti l’antica struttura viaria romana a doppio pettine) si risale a incrociare la Via Niccolò Toppi, all’altezza della torre del Palazzo Sanità. Ancora in salita si raggiunge l’incrocio con Via Arniense e si prosegue frontalmente sul Corso Marrucino. Alta su una scalinata a doppia rampa c’è la Chiesa di San Francesco al Corso, che merita una visita per il suo sontuoso interno. Un ulteriore tratto del Corso, affollato di negozi, ci riporta a Piazza Valignani, nostro punto di partenza e di arrivo. Il secondo anello richiede poco più di due ore.

Le vicende belliche del 1943-44 e l’azione di Mons. Venturi in favore della città di Chieti sono descritte da Angelo Meloni in Chieti città aperta. Il volume, pubblicato immediatamente dopo la guerra nello stile di una relazione storica, è ricco di documenti, notizie e fotografie. Un approccio più critico è quello di Stefano Trinchese pubblicato nel volume collettivo Cattolici, Chiesa e Resistenza in Abruzzo, curato da Filippo Mazzonis per l’Istituto Luigi Sturzo (Il Mulino, Bologna, 1997).


Ettore Paratore è soprattutto noto per la cattedra di letteratura latina che ha tenuto per un trentennio all’Università “La Sapienza” di Roma. Nato a Chieti nel 1907, è morto a Roma nel 2000 all’età di 93 anni. Paratore, politicamente conservatore, ha scritto libri sui quali si sono formati un gran numero di studenti e ha creato una scuola e guidato allievi di grande valore. Nel 1987, ormai ottantenne, ha pubblicato Era un’allegra brigata. Ambientato in Abruzzo negli anni della guerra, il romanzo (da cui sono tratte le citazioni qui pubblicate) intreccia le vicende private, la famiglia e gli amici di un giovane professore universitario in una provincia addormentata con le tragedie innescate dalla guerra che viene a sconvolgere i ritmi della vita collettiva: l’occupazione dei tedeschi, lo sfollamento della popolazione, la rivolta e i martiri di Lanciano, gli episodi della resistenza, la proclamazione di Chieti città aperta, la liberazione.


Corrado Alvaro (San Luca, Reggio Calabria, 1895 - Roma 1956), lo scrittore calabrese di area progressista, autore di “Gente in Aspromonte”, ha vissuto a Chieti “città aperta” i mesi di guerra a cavallo tra il 1943 e il 1944. Dopo il 25 luglio '43 aveva infatti assunto la direzione del Popolo di Roma. Ma con l'occupazione tedesca della città, fu colpito da mandato di cattura e dovette rifugiarsi a Chieti, sotto il falso nome di Guido Giorgi, dando lezioni d’inglese per vivere. Chieti ospita migliaia di sfollati che i tedeschi hanno costretto con la forza ad abbandonare i loro paesi sulla linea Gustav. Il sovraffollamento, i bombardamenti, la paura e la penuria da guerra modificano gli stili di vita e le relazioni sociali. Il suo diario di quei giorni -  pubblicato nel 1950 col titolo Quasi una vita, e dal quale provengono le citazioni qui riportate - testimonia la sua capacità di osservazione e di rappresentazione. La sua penna registra con feroce moralismo egoismi individuali e comportamenti collettivi. Ma - quasi a smentire i primi - coglie anche inaspettati gesti di solidarietà umana e cristiana.


Eugenio Corti, brianzolo, è scrittore di ispirazione cattolica. La sua opera più nota è Il cavallo rosso, affresco dell’Italia e dell’Europa del dopoguerra, pubblicato nel 1983. Ma qui citiamo brani tratti dal suo Gli ultimi soldati del re, quei soldati che dal 1944 al 1945, inquadrati nell’esercito regolare, hanno combattuto insieme con gli “alleati” contro i tedeschi, non con odio, ma spinti dal senso del dovere, dall’amore per la patria, dal desiderio di finire al più presto una guerra che lacerava i corpi e le coscienze, dalla volontà di uscire dalla sconfitta e dal caos. Corti racconta la sua traversata a piedi da Nettuno (dove l’aveva sorpreso l’armistizio dell’8 settembre) all’Abruzzo attraverso l’Appennino e poi il passaggio del fronte lungo i tratturi molisani; la fase di ricostituzione del corpo militare italiano in Puglia; le operazioni militari che portano allo sfondamento della linea Gustav sul Sangro e all’entrata a Chieti; la liberazione dell’Abruzzo e delle Marche e le battaglie contro la linea Gotica; l’incontro con la famiglia e le successive fasi di ristrutturazione dell’esercito italiano.

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